“Se incontri il Buddha per strada uccidilo” di S.B.Kopp

“Se incontri il Buddha per strada uccidilo” di S.B.Kopp

SE INCONTRI IL BUDDHA PER LA STRADA, UCCIDILO

Sheldon B. Kopp

Questo libro inizia in maniera abbastanza leggera citando una serie di esempi di guru e leader carismatici, sul come il carisma sia assai diverso dal dare consigli ed esprimere doveri. In effetti, riagganciandoci anche al concetto di doverismo espresso da Naranjo nel libro “teoria e prassi della terapia gestaltica”, si può ben notare come non stia al terapeuta dire il cosa fare,

ma viaggiare insieme al cliente per capire cosa possa e voglia fare lui stesso in quella data situazione. Non c’è alcun maestro, né alcun allievo, siamo tutti pellegrini.

Insomma siamo tutti liberi cercatori sul proprio cammino, che può essere tortuoso e in salita ma con tratti di discesa e piante bellissime e incontri particolari, diversi per ciascuno di noi.

La missione di insegnamento del guru e di liberare i suoi seguaci da lui. Il guru istruisce i suoi seguaci (compagni di viaggio) nella tradizione del rompere la tradizione.

A distinguere gli uomini dalle bestie è la forza irresistibile della narrazione, l’uomo è narrato, il bambino, come sosteneva Winnicott, è narrato molto prima che nasca e addirittura che venga concepito. L’idea stessa che i due genitori coltivano dentro di sé, i racconti, i rituali legati al milieu sociale, tutto questo fa parte dell’individuo e lo rende diverso dagli animali che sono puro istinto (lo sono poi davvero?).

Al giorno d’oggi ogni uomo deve lavorare sulla narrazione della propria storia per poter riprendere la sua identità personale. Il pellegrinaggio psicoterapeutico è costituito prevalentemente dalla narrazione. Ma la narrazione non è tutto, altrimenti basterebbe un bel muro per fare una psicoterapia, c’è bisogno dell’Altro che lo ascolti e che, sopratutto, lo prenda a cuore.

Trovo bellissimo il racconto dei 36 Giusti, che vi invito a leggere integralmente e che in sostanza dice che nessuno può salvare nessuno, l’unica cosa che possiamo eprmetterci è di provare dolore sincero per gli altri. Ma l’Amore non è solo questo, l’Amore è la buona volontà di vivere con la consocenza impotente che non possiamo fare nulla per risparmiare agli altri il dolore (credo che questo sia un esercizio tanto bello quanto difficile).

Un altra immagine molto bella dell’autore è quella del rapporto cliente-terapeuta, il rapporto non è basato sulla volontà di aiutare il prossimo, ma se stessi. Racconta che come terapeuta non nutre il paziente quando chiede aiuto, ma solo quando si sente “traboccare di latte”. E’ una metafora che per me significa non aiutare il paziente entrando in un gioco, ma seguendo il sentire del momento, dove per momento si intende anche il qui ed ora di quel determinato paziente.

Il terapeuta è compagno di viaggio, e si deve sporcare, ascoltare i suoi sentimenti, entrare in relazione con il paziente/cliente. La decisione libera (scelta) di essere trasparente è l’impegno ad una lotta infinita. Il terapeuta, nella sua infinita umanità, non solo è perfettibile ma gode di paure, ansie e problemi grandi e piccoli esattamente come il paziente.

Prima che l’uomo possa essere libero, deve innanzitutto scegliere la libertà.

LA STORIA DI UN UOMO CONTRO GLI DEI

Inizia qui la narrazione della storia di Gilgamesh, tiranno autoritario per due terzi dio e un terzo uomo, a cui fu “fabbricata” dalla dea Aururu, su richiesta dei suoi sudditi, un gemello.

Il gemello aveva le caratteristiche opposte a quelle di Gilgamesh e, sostiene l’autore, tutti noi abbiamo dentro. Una metà nascosta, che non vogliamo nemmeno vedere.

Lo psicoterapeuta ha, tra le altre, il compito di presentare i due gemelli e farli abbracciare: il signor brava persona e il signor bruto.

I poli sono comunque indispensabili entrambi, dalla giustapposizione dei due, nasce il cambiamento, il movimento, la vita.

E così per Gilgamesh e suo fratello gemello Enkidu, che combattono, riconoscono il loro essere opposti e complementari, si abbracciano e si giurano amicizia.

Insieme vanno per uccidere il terribile mostro della foresta e durante il viaggio (stranamente un viaggio) si confessano le loro debolezze e si riconoscono. Insieme riescono a sconfiggere il terribile mostro. Insieme, così come ognuno di noi ha bisogno di riconoscere le parti di sé nascoste e meno comode per trovare il proprio equilibrio.

Come Gilgamesh, tutti noi siamo alla continua ricerca del significato della vita, ci affanniamo, ci stressiamo, compriamo, rimediamo, ma il punto è solo che non c’è un punto. Ritorna prepotente il concetto gestaltico del qui ed ora, che forse anche Lorenzo il Magnifico nel suo sonetto “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza, quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia”, aveva intuito.

Aggiungo io che forse l’unica necessità vera è fermarsi o quantomeno rallentare, accettando e riconoscendo la paura dell’abisso del vuoto che ci si para davanti.

Kopp racconta poi di come la minoranza più comunemente oppressa, anche quando non minoranza, sia quella delle donne. E racconta di un caso di una sua paziente, Willo, che non mi dilungo qui a riassumere. Una tecnica interessante che usa è quella dello scrivere una lettera alla madre (che però potrebbe essere un Altro importante qualunque secondo me) per poi scrivere la risposta.

Questa è una tecnica che serve per aiutare la persona ad entrare in contatto con i propri bisogni e con le proprie grida interiori. Un po’ come il recuperare delle parti perdute dell’anima di una persona. In fondo io sono convinto che la psicoterapia sia proprio questo, viaggiare, cercare questi pezzi, a volte grandi, a volte piccoli, che abbiamo perso, convincendoci poi della loro inesistenza oppure del fatto che non siamo capaci a recuperarli. Il terapeuta proprio in questo senso è un vero e proprio compagno di viaggio. Non sa nulla del cammino, ma lo guida la curiosità e l’amore per l’altro.

Parlando del libro “Siddharta”, di Herman Hesse, Kopp ci fa un rapidissimo excursus sul fatto che alla fine della sua ricerca, Siddharta non può far altro che constatare che un maestro non è necessario, che non bisogna allontanarsi dal proprio sé per scoprire la Verità.

Allo stesso modo è per il paziente, non ha bisogno del terapeuta, ed il viaggio insieme a lui serve proprio a questo. Ad arrivare a questa conclusione dove l’unica cosa che esiste da conoscere, amare ed accettare, è il proprio Sè.

Ed è proprio questo l’insight che costituisce l’inizio di una nuova vita per noi tutti, il fatto che da adulti non c’è nessun guru, nessun maestro e, aggiungo io, nessun genitore, da cui imparare come stare bene. Questo insight è come il boschetto dove Siddharta si reca per trovare un saggio Buddha e ascoltarne gli insegnamenti. Se ne esce Uomini e Donne, con una nuova vita davanti.

Siamo riluttanti come esseri umani a tollerare l’ambiguità della nostra vita, la non-certezza, qualcuno che deve sapere ci sarà pure! E siamo talmente accecati da questa ricerca, dalla ricerca di un guru-maestro-genitore buono, che non vediamo che in realtà è dentro di noi, vulnerabile e spesso impotente.

Kopp passa poi a parlare del matrimonio, dell’amore, e di come la scelta monogama gli sembri l’unica possibile rispetto al baratro di solitudine che ci attanaglia tutti indistintamente. Inutile secondo kopp la conta dei pro e dei contro, un’unione porta alti e bassi che non possono essere misurati.

Nella coppia in crisi ciascuno vuole vincere senza essere vulnerabile, senza di fatto “sporcarsi”. In effetti anche la relazione terapeutica, non è possibile senza sporcarsi, non è una relazione tra un detentore della verità (che non esiste) e un fruitore della stessa. Non è un rapporto fontana-assetato.

In qualche modo ciascuno si sposa per compensare le proprie mancanze.

Il problema che poi si ripercuote sulla sfera strettamente sessuale è questo cercare sempre di averla vinta, di non fidarsi e quindi af-fidarsi all’altro. A seconda di quanto le difese siano più o meno alzate, la vita di coppia in tutti i suoi aspetti sarà soddisfacente.

Il libro prosegue raccontando casi, portati ad esempio di modi nei quali ci attacchiamo a ruoi che ci fanno soffrire. Come ci costruiamo spesso un ruolo-gabbia dal quale uscire è doloroso e difficile. E’ il caso di una donna che si è convinta, sin da piccola, di poter influenzare le vite degli altri. Complici e artefici i suoi genitori, questo ruolo di ipercontrollo e responsabilità da adulti ha un prezzo insopportabile. Solo arrivando alla consapevolezza che possiamo fare solo cose per noi e che possiamo influire solo su noi stessi, ci rassegniamo alla sovranità di ciascuno nel proprio territorio, ancora una volta torniamo alla prima frase della preghiera della gestalt: io sono io e tu sei tu, anche alla seconda ora che ci penso, anzi proprio a tutta: io sono io e tu sei tu / non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative e tu non sei al mondo per soddisfare le mie / se ci incontreremo sarà bellissimo, altrimenti, così va la vita.

Nel capitolo successivo Kopp inizia parlando della discesa agli inferi di Dante, di queesto viaggio che oramai fa parte della cultura di tutti noi, che lo abbiamo vissto a scuola o che ne abbiamo solo sentito parlare. Restando nella metafora del viaggio, il paziente in psicoterapia, prima di vedere la luce, la sua verità, il suo cammino, deve avere il coraggio di vedere i propri inferi e le proprie bruttezze, in questo senso il terapeuta, per rimanere nella metafora, è un Virgilio.

In questa chiave di lettura l’autore racconta la sua esperienza con la manipolazione, asserendo che chi manipola interagisce solo con altri manipolatori, che gli danno per ottenere il loro personalissimo tornaconto. Chi controlla?chi realmente è controllato? Difficile dirlo, sicuramente c’è poco contatto con i reali bisogni.

Dante affronta un viaggio fino alla fine dell’inferno, così i pazienti, chi inizia il viaggio porta un problema, via via che scende e torna verso (non contro) sé stesso, avrà modo e tempo di accorgersi che il problema è in realtà la soluzione adottata fino a quel momento. Non si può cambiare nulla in noi senza prima accettarlo.

Proprio per questo dalla terapia non si esce né buoni, né cattivi, semplicemente se stessi, con la bellezza e la limitatezza della proprio umanità, che è ricca di quel potenziale creativo che in una parola chiamiamo vita.

Altro tema interessante è quello della ricerca (vana) di piacere agli altri, soddisfare le aspettative, trovare la “formula corretta”. In realtà non esiste una forma corretta, culturalmente siamo impregnati di giudizio, buono/cattivo, giusto/sbagliato…concetti buoni forse per 4 chiacchiere a cena, che se applicati portano solo sofferenza poco fertile.

Kopp cita un romanzo di Kafka per affrontare questo argomento, il protagonista non riesce ad accedere ad un castello e si tormenta perché vorrebbe accedervi, un po’ come noi cerchiamo sempre il posto giusto, l’approccio corretto, il modo buono per stare in mezzo agli altri.

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