“Body process” di James L. Kepner

body getsalt concept psychology

“Body process” di James L. Kepner

BODY PROCESS – il lavoro col corpo in psicoterapia

di James L. Kepner

E’ da molto tempo che desidero leggere e sintetizzare questo libro, uno dei capisaldi della Gestalt moderna. Nella mia esperienza personale e nel mio lavoro di terapeuta, mi trovo spesso a seguire quello che il mio corpo vuole fare. Me ne assumo le responsabilità, finora mi ha portato in posti interessanti e ricchi che nemmeno i pazienti conoscevano di sé.
E’ proprio da una riflessione simile che inizia il libro, dove l’autore si domanda come sia possibile ignorare la dimensione corporea a favore di una cognitiva. E’ proprio da disagi corporei che molte terapie iniziano.
I latini dicevano mens sana in corpore sano, se ci allontaniamo un attimo dalla dimensione di sanità del corpo che lo vorrebbe magro, senza malattie e tonico, forse possiamo spingerci ad immaginare che l’una siano uno specchio dell’altra e che spesso vadano insieme, anche e sopratutto nelle piccole sfumature posturali, nel modo di respirare, in quello di mangiare o di avvicinarci agli altri. Non solo nella manifestazione delle malattie di cui si occupa una branca della medicina detta olistica, che segue gli spunti dati dal Dott. Hamer.

Nel linguaggio corrente sleghiamo il corpo dal sé, un po’ come se fosse qualcosa che ci appartiene (come una macchina), ma completamente svincolato dal nostro se, quasi alieno. Quando ci accade qualcosa la descriviamo come esterna, e non come “me che sta avvenendo”. Eppure mi ha sempre colpito la riflessività di certe espressioni: mi sono fatto male, mi sta venendo un raffreddore, e così via. Queste espressioni non mi sembrano slegate dal sé, eppure, nella nostra mente, non ci soffermiamo a considerare che non solo siamo un tutto integrato, ma che il nostro corpo fa parte del nostro io come e più dei nostri pensieri.
L’autore propone poi una piccola esperienza sul portare la consapevolezza sul proprio corpo, cominciando col notare come stiamo respirando e se notiamo delle tensioni o delle sensazioni nel nostro corpo, dopodiché, propone di trasformare “Io noto”, in “io sono” e vedere che effetto fa, incuriosendosi sui dettagli delle sensazioni, e sul come è essere proprio in quel modo.
Lo step successivo è focalizzarsi sulle tre tensioni che spiccano maggiormente e dire, ad esempio se una di queste è la compressione, “mi sto comprimendo, e questa è la mia esistenza”.
Il nostro corpo fa parte di noi proprio come il pensiero, il linguaggio, nel momento in cui parliamo del corpo come qualcosa di slegato da noi stessi, ci stiamo limitando. In questo modo ci sentiamo dissociati, frammentati, le cose “ci accadono”.
Il nostro corpo in realtà è il veicolo fondamentale per il nostro andare nel mondo e relazionarci con esso. Il veicolo principale dell’esperienza. Il sé in Gestalt è considerato un processo fluido, non un complesso di caratteristiche stabili come in altri orientamenti, il sé non ha una natura propria se non quando è in relazione, è un vero e proprio integratore dell’esperienza; In parole povere il sé e le funzioni di contatto in Gestalt sono la stessa cosa.
È un processo circolare nel quale attraverso l’eccitazione avvertiamo i nostri bisogni, con l’orientamento ci organizziamo per soddisfarli in relazione all’ambiente, attraverso la manipolazione agiamo al loro servizio. Attraverso l’identificazione e l’alienazione integriamo o rigettiamo nel nostro io ciò che può essere assimilato o meno. Proprio per l’estrema importanza delle funzioni di contatto è importante averle presenti alla consapevolezza, quando vengono a mancare inizia il disagio, psichico e non solo. L’organismo non è più in grado di adattarsi in maniera fluida al mondo.
Il corpo ci aiuta a dare il vero nome ai nostri bisogni, Perls sostiene che se non “ingeriamo” cibo buono ed adatto a noi (e non rigettiamo quello inadatto), la vita risulta “tediosa, confusa e dolorosa”.
Nell’ottica gestaltica Separare la nostra parte corporea da noi significa in qualche modo sabotare la nostra funzione organismica. Come arriviamo ad alienare la nostra esistenza fisica?
Ci può essere una diseducazione al contatto fin da tenera età ad esempio. Un atteggiamento critico e scoraggiante espresso con frequenza e continuità, forgia il sé del bambino, anche i doppi messaggi (double bind, ovvero quando io adulto rimprovero un comportamento nel bambino e poi lo metto in atto) fanno si che si verifichino delle condizioni di pericolo per l’integrità del sé. E’ un po’ come se io pretendessi che una stanza della mia casa non esista, la sigillo ma non me ne posso disfare perchè fa parte della casa. Porto un’istanza del sé nell’inconsapevolezza, la ignoro, quella tuttavia rimane lì. Quell’istanza del sé continuerà ad agire nonostante io l’abbia sigillata (per esempio le emozioni).
Se questa negazione avviene a livello del corpo, io avrò un Io che è lecito fatto di mente e parole, ed un Esso che è il corpo e che è estraneo.
Quasi tutti se non tutti i sentimenti, hanno una base corporea, cambiamento del respiro, sudorazione, e molti altri indici li caratterizzano. Basti pensare allo studio di Darwin sulle display rules, fatto a fine ‘800, le emozioni di base hanno espressioni fisiche transculturali e un africano è perfettamente in grado di riconoscere la rabbia sul volto di un europeo.
Alla base delle emozioni ci sono quindi le sensazioni, che possiamo lasciar fluire o meno, se le lasciamo fluire, attraverso il nostro apparato motorio, ecco che l’emozione si manifesta (e-movere, muovere fuori); ad esempio per la tristezza, se lasciamo il movimento fluire, si attivano la respirazione, le lacrime, ecc. E’ soltanto attraverso il movimento che il sentimento assume pieno significato. Solo muovendoci ci mettiamo in condizione di connettere il bisogno, che il sentimento manifesta, con l’ambiente, che poi è dove i bisogni possono essere soddisfatti. Se un movimento viene ostacolato, etichettato e quindi represso, sono delle funzioni di contatto che diventano difficilmente accessibili.
Il dolore è funzionale a farci conoscere i nostri limiti fisici, può anche essere qualcosa che ci danneggia molto e viene usato da altri proprio con questo fine. Genitori violenti, abusi, bullismo, etc, sono tutti esempi dove il dolore non gioca un ruolo costruttivo. Quello che accade nella realtà di una ferita, fisica o emotiva, reiterata nel tempo, è l’allontanarsi il più possibile dalla fonte, quindi anche dalla sensazione stessa. Ad esempio rinnegando la sede stessa del dolore pur di non sentirlo. Possiamo rinnegare un braccio ma quello continua ad esserci…
A volte può succedere che la negazione del corpo ci distacchi anche dai nostri bisogni e quindi dall’espressione di essi.
Molto del distacco dal corpo e del considerarlo qualcosa di lontano da noi lo dobbiamo alla negazione della nostra sessualità, il rapporto genitore-bambino ne è l’esempio. Tra genitori e figli c’è affetto e c’è sessualità, la nostra cultura ci “impone” di negare la seconda, per cui si crea una negazione importante che può avere esiti nel figlio/a che si distacca dalla propria dimensione corporea perchè l’idea dell’incesto è intollerabile. Cosa succederebbe se i genitori si autorizzassero l’idea della sessualità? Credo che sia fondamentale autorizzarsi l’idea, naturalmente non di agirla, per avere una scelta. Quello che dico può sembrare tremendo, ma sono convinto che solo non negando le parti di noi abbiamo un reale potere di scelta su quello che vogliamo essere.
La negazione corporea ha diverse sfumature, da lieve a psicotica, quando cioè si ha una distorsione grave della propria immagine corporea. A metà strada tra la posizione normale e quella nevrotica c’è quella modale, ossia il più comune grado di identificazione corporea. In un qualche modo siamo tutti nevrotici in modo “normale”, quello che sperimentiamo è il miglior adattamento creativo possibile in una determinata circostanza.
A un estremo del continuum, c’è anche il “materialismo corporeo”, per il quale l’unica realtà che abbia senso è, appunto, quella corporea. Il sé è un sé solo corpo che non include altri aspetti, per cui la consapevolezza non abbraccia nessun altro aspetto. Un po’ come se l’equilibrio tra sé e aspetti rinnegati del se fosse rappresentato dalla quantità di acque e terra emersa, per queste persone, la quantità di acqua è talmente grande e spaventosa che non gli resta che voltarsi verso l’interno, ignorando di essere un’isola dopo tutto.
Il liberarsi dei blocchi corporei ed emotivi, non è una strada senza rischi o che esenta dal dolore, a tal proposito Perls scrive: “ma crescendo il sé corre dei rischi, corre dei rischi con sofferenza se ha evitato a lungo tali rischi e deve dunque distruggere molti pregiudizi, introietti, attaccamenti al passato fissato, sicurezza progetti ed ambizioni; corre i suoi rischi con eccitazione se è in grado di accettare di vivere nel presente”.

Nel nostro sé albergano istanze che ci possono risultare più o meno gradevoli, la persona sana si consente tutte la consapevolezza di tutte le polarità, cosa che dà forza.
Il fatto di rinnegare delle parti di sé implica che la persona si neghi tutta una gamma di esperienze e possibilità, le energie vengono grandemente investite nella repressione. Le polarità (aspetti) che esprimiamo, sono quelle che possiamo definire come “immagine di sè”, mentre quelle che neghiamo, costituiscono il sé rinnegato, quello che Jung ha chiamato “l’ombra”.
Ogni polarità del sé ha le proprie radici nelle nostre sensazioni corporee e nel comportamento così come nel nostro linguaggio figurato e nella simbolizzazione verbale, per esempio basta pensare a qualcuno che si relaziona in modo “duro” o “tenero”. Tutto il corpo risponde all’intenzione che abbiamo.
Integrare corpo e sé vuol dire essere in grado di essere “plastici” nell’uno e nell’altro, mutuamente, come posso accettare di essere tenero se non sono in grado di ammorbidire i miei muscoli?

La persona è e continua a rimanere una totalità, si scinde per allontanarsi da esperienze dolorose. L’io solitamente viene identificato con il funzionamento mentale, con la produzione di parole, pensieri, immagini, mentre gli aspetti della propria esperienza corporea che sono risultati problematici, vengono considerati come “altro da sè”.

La maggior parte degli approcci terapeutici divide mente e corpo, che lavora col verbale o solo col corpo. I terapeuti sono sfidati a comprendere cosa significa accostarsi alla persona come unità, a determinare cosa è necessario recuperare di quello che è stato frammentato e rinnegato, ed a sostenere l’integrazione delle parti in una persona che possa funzionare come una totalità.
Nella scienza del 19simo secolo e negli approcci da essa scaturiti, la totalità è uguale alla somma delle sue parti, se una persona è considerata come un insieme di parti, allora ogni sua parte può essere separata dal resto e trattata singolarmente. In pratica i fenomeni psicosomatici sono visti come una funzione di una relazione causale tra mente e corpo, due settori distinti e separati.
Con i vari approcci terapeutici si presentano vari problemi, ad esempio con quello unidirezionale, che cioè va ad agire su una parte, si favorisce la scissione tra mente e corpo, incentivando l’attenzione verso un solo aspetto della persona. Il problema è che la persona vive come se un conflitto mentale causa un sintomo fisico, piuttosto che di avere un problema unitario che ha varie manifestazioni.
Gli approcci che partono dal fisico, invece, prevede una interdipendenza tra postura e atteggiamento mentale, detto in parole poverissime, se cambio la postura di una persona depressa, sarà meno depressa. Il punto è che se non c’è un’integrazione delle parti del sé, la persona depressa non sarà in grado di mantenere la postura “non-depressa”.

Tra i molti approcci c’è anche quello stratificato, che lavora separatamente e contemporaneamente sul livello psicologico e fisico, il problema sorge nel fatto che le due esperienze non sono la stessa esperienza, cioè ci può essere una pur sottile discrepanza tra il sé corporeo ed il sé razionale del cliente che non favorisce l’integrazione. Il punto è che nessuno degli approcci finora descritti si pone il problema della reificazione del corpo, ovvero del considerare il corpo come altro da sé, di conseguenza è facile immaginare come non abbiano alcun modo di colmare il divario che si crea in questo modo.
Un approccio integrato miera a mettere insieme tutti gli aspetti della persona così che questa possa fare esperienza di sé come un organismo unitario, invece di un miscuglio di parti.
I processi psicologici (per esempio i conflitti o le convinzioni) nel venire verbalizzati sono collegati alle loro espressioni corporee, i processi fisici sono visti come espressioni significative della persona, la tecnica terapeutica si sforza di ristabilire il senso del sé come globalità e di riaffermare la mutua identità delle parti.
Il problema portato dal paziente, in una terapia integrata, include sia le tensioni fisiche che il conflitto mentale. Collegare le due parti non vuol dire comprendere intellettualmente che sono collegate, ma vivere nel momento presente quell’esperienza integrata.
Il punto è che la totalità non può essere insegnata né spiegata come concetto, la terapia ha il compito di creare le condizioni necessarie per muovere il paziente verso l’esperienza di unitarietà. Solo attraverso di essa potrà sentirne il sapore e ricercarlo, il lavoro integrato in quest’ottica diventa un punto di partenza e non d’arrivo.
Il lavoro integrato prevede una certo numero di condizioni perchè possa risultare possibile e pertinente:
un sufficiente grado di consapevolezza del corpo (sufficiente vuol dire che il paziente stesso si osserva ed è in grado di notare cosa sta succedendo a livello corporeo)
un sufficiente grado di consapevolezza della relazione fra se stessi e le questioni e i problemi della vita corrente (se non riconosco che partecipo attivamente a quello che mi accade e che, quindi, non mi accade per caso, è abbastanza inutile qualunque terapia)
una fiducia di base tra problemi psicologici e processo corporeo (darla per scontata sarebbe un errore, la si costruisce, insieme al paziente, attraverso delle piccole esperienze)

Enunciati questi principi di base, questo non toglie che possiamo e dobbiamo lavorare con l’obiettivo dell’integrazione senza mai perdere di vista chi abbiamo davanti e quindi apprezzare l’adattamento creativo di ciascuno per quello che è (inclusi meccanismi di difesa e sintomi portati). Il nostro compito non è quello di convincere i pazienti del nostro sistema di convinzioni, che, appunto, è nostro, ma di sostenere lo sviluppo in loro della capacità di fare esperienza dei sintomi come parte del proprio se (e non altro-da-sè).
Anche nella terapia corporea, così come nella Gestalt in generale, vale l’assunto di base, anziché parlare di un dolore, parla come se il dolore fossi tu, quindi non più “la mia schiena è sotto pressione”, ma “IO sono sotto pressione”, questo è l’inizio di un lavoro di integrazione. Naturalmente dura tutto il tempo necessario, non è una cosa immediata, è un inizio.
In realtà, a ben vedere, ciascuna delle modalità terapeutiche ha i suoi pregi, ed allo stesso tempo fa parte di un processo che ci porta alla visione integrata. Il lavoro unidirezionale (scissione mente/corpo), sviluppa la consapevolezza di quelle parti che sono rimaste fuori da essa e che sono quindi inaccessibili alla funzione integrativa della persona, il lavoro alternato (ora mente, ora corpo) sviluppa il senso di complementarità tra processi fisici e mentali, e li porta verso uno stesso confine. Il lavoro stratificato permette il collegamento delle parti del se che prima non lo erano, ed è la prima approssimazione del lavoro integrato. L’ultimo step è appunto il lavoro integrato, che usa come base il collegamento tra le parti per colmare i “buchi” di consapevolezza e per accompagnare la persona ad apprezzare la totalità formata da ciò che precedentemente era sperimentato poco o nulla.
L’ottica gestaltica non è mai incentrata sulla casualità, in questo senso nemmeno la struttura corporea accade o capita. E’ un insieme dei suoi adattamenti organismici alla vita e diventa significativa se vista in questo contesto. Quand’è che una postura, un modo di stare nel mondo si cristallizza? Quando una certa reazione, fisiologica in un momento, diventa una struttura, ad esempio quando sto incurvato e con le spalle alte che incassano la testa come se fossi in attesa di un colpo; se questo modo di difendermi diventa da processo (momentaneo) struttura, allora ecco che una postura diventa dolorosa e cristallizzata.
Le caratteristiche principali della struttura cristallizzata sono la poca flessibilità e l’inconsapevolezza; la poca flessibilità si esprime per esempio quando, una volta cessato il pericolo, reale o immaginato che sia, rimane la postura, che poi si cristallizza. Immaginiamo come possa essere faticoso vivere come se ci fosse una minaccia costante…
Le strutture corporee di adattamento sono come delle abitudini, per quanto questa parola non renda adeguatamente l’idea. Ma come possono questi processi diventare tanto abituali da cristallizzarsi? Le parti del sé rinnegate, come già detto, trovano un loro non-posto nel corpo, ovvero si traducono nell’inibizione di alcuni movimenti, nella desensibilizzazione delle sensazioni corporee. Questo reprimere, non autorizzarsi, porta esattamente alla cristallizzazione, un po’ come imporsi dei limiti, dei confini (che non sono selettivamente permeabili, ma rigidi) senza sapere cosa c’è realmente al di là. La cornice posturale delle persone, quando è inconsapevole, può dare luogo a delle scissioni importanti, pensiamo per esempio al sergente dell’esercito: mascella contratta, npetto in fuori, spalle e collo irrigiditi. Come si percepisce? Riesce a modificarla per dare spazio a tenerezza e dolcezza? Potrebbe percepirsi come un duro, e l’idea di sé e la postura sarebbero congruenti, oppure potrebbe percepirsi come caldo ed amichevole, ed allora sarebbero incongruenti. Potrebbe sentirsi messo a disagio dal fatto che gli altri interagiscano con lui in modo timido, ed allora si ha una disconnessione dal proprio sé, dove la struttura corporea, aliena, non gli permette di contattare gli aspetti aggressivi né quelli dolci.
In quest’ottica, il compito del terapeuta non è tanto di “eliminare” le cristallizzazioni corporee (così come non è quello di eliminare i sintomi, ovvero ciò che il paziente ci porta come disagio) ma di aiutare il paziente a cambiarle in processi organismici attivi e di facilitare l’integrazione della scissione che ne è alla base. Non eliminare le strutture ma trasformarle nei processi che rappresentano e integrare nel sé ciò che è stato rinnegato o rimosso.
Nella Gestalt l’obiettivo è il cambiamento della persona come unità , la domanda non è “il tuo petto è incavato, prova così”, ma “Noto che il tuo petto è incavato, prova a cambiarlo: che cosa cambia nell’esperienza di te stesso se sollevi il torace?”. In questo modo permettiamo al paziente di fare un’esperienza, che poi potrà scegliere di replicare e/o approfondire.
Gran parte delle strutture corporee sono inconsapevoli, il primo passo per una terapia è notare cosa accade, ovvero far prendere consapevolezza al paziente di quello che è. A partire da questa consapevolezza, poi, si può iniziare un processo di riappropriazione, per far sì che il mio corpo sia meno una cosa e più “io”. Comincio ad identificarmi con la struttura corporea. Un altra possibilità che offre la terapia con il corpo è quello di ancorarci un qualcosa che possa risultare evocativo per il paziente, ad esempio un gesto, una sensazione o il cambiamento della stessa nel fare un’esperienza. Questo può aiutare il paziente a “ricordarsi” di un sapore e inseguirlo quando non è in seduta, in maniera tale da sviluppare proprio quella funzione di autoaccompagnamento che credo sia fondamentale in una psicoterapia.
Perché una terapia sia integrata e olistica bisogna sempre tenere presente come un tema è incarnato, ovvero agire sui piani della parola, dell’emozione e dell’azione, il tema di una persona non è legato soltanto alla percezione, ma anche a come lo agisce, quindi al suo corpo. Per esempio con qualcuno che è fortemente legato alla parola, bisogna spostare il focus sul corpo per permettergli di fare un’esperienza che vada al di là dei confini che normalmente rispetta, proprio perché, grazie a questa nuova esperienza, possa aprirsi nuove possibilità. La struttura corporea può essere vista come una conversazione cristallizzata o un dialogo tra parti di sé in conflitto, la conversazione si è bloccata perchè una delle parti in conflitto ha preso il sopravvento, andando a trovare un equilibrio fragile e basato su un rapporto di potere con l’altra (quante volte ci capita nella vita quotidiana in relazione con l’altro questo?).
Il lavoro che segue può ad esempio essere un dialogo tra le parti in conflitto e quindi la chiusura di gestalt rimaste aperte; cosa cambia nel corpo? Che effetto mi fa?
Il punto è che dialettizzare il sintomo, o la postura, non basta di per sé, il paziente ne deve fare esperienza nel contesto protetto della terapia e “pendolare” da una polarità all’altra trovando la sua sfumatura e la flessibilità necessarie a poterle mettere in atto nel mondo. Il fine non è di invalidare il meccanismo di difesa o di liberarsene, ma di renderli funzionali e “attuali” (se sono nati avranno avuto uno scopo in quel momento della nostra vita, oggi, perchè siano efficaci, vanno probabilmente modificati e riadattati). L’importante è trovare la manopola per la modulazione, in modo tale da esporsi in quegli ambienti dove troviamo sostegno, e proteggersi là dove ci sembra che non ci sia.

continua….[:en]BODY PROCESS – il lavoro col corpo in psicoterapia –
James L. Kepner

E’ da molto tempo che desidero leggere e sintetizzare questo libro, uno dei capisaldi della Gestalt moderna. Nella mia esperienza personale e nel mio lavoro di terapeuta, mi trovo spesso a seguire quello che il mio corpo vuole fare. Me ne assumo le responsabilità, finora mi ha portato in posti interessanti e ricchi che nemmeno i pazienti conoscevano di sé.
E’ proprio da una riflessione simile che inizia il libro, dove l’autore si domanda come sia possibile ignorare la dimensione corporea a favore di una cognitiva. E’ proprio da disagi corporei che molte terapie iniziano.
I latini dicevano mens sana in corpore sano, se ci

allontaniamo un attimo dalla dimensione di sanità del corpo che lo vorrebbe magro, senza malattie e tonico, forse possiamo spingerci ad immaginare che l’una siano uno specchio dell’altra e che spesso vadano insieme, anche e sopratutto nelle piccole sfumature posturali, nel modo di respirare, in quello di mangiare o di avvicinarci agli altri. Non solo nella manifestazione delle malattie di cui si occupa una branca della medicina detta olistica, che segue gli spunti dati dal Dott. Hamer.

Nel linguaggio corrente sleghiamo il corpo dal sé, un po’ come se fosse qualcosa che ci appartiene (come una macchina), ma completamente svincolato dal nostro se, quasi alieno. Quando ci accade qualcosa la descriviamo come esterna, e non come “me che sta avvenendo”. Eppure mi ha sempre colpito la riflessività di certe espressioni: mi sono fatto male, mi sta venendo un raffreddore, e così via. Queste espressioni non mi sembrano slegate dal sé, eppure, nella nostra mente, non ci soffermiamo a considerare che non solo siamo un tutto integrato, ma che il nostro corpo fa parte del nostro io come e più dei nostri pensieri.
L’autore propone poi una piccola esperienza sul portare la consapevolezza sul proprio corpo, cominciando col notare come stiamo respirando e se notiamo delle tensioni o delle sensazioni nel nostro corpo, dopodiché, propone di trasformare “Io noto”, in “io sono” e vedere che effetto fa, incuriosendosi sui dettagli delle sensazioni, e sul come è essere proprio in quel modo.
Lo step successivo è focalizzarsi sulle tre tensioni che spiccano maggiormente e dire, ad esempio se una di queste è la compressione, “mi sto comprimendo, e questa è la mia esistenza”.
Il nostro corpo fa parte di noi proprio come il pensiero, il linguaggio, nel momento in cui parliamo del corpo come qualcosa di slegato da noi stessi, ci stiamo limitando. In questo modo ci sentiamo dissociati, frammentati, le cose “ci accadono”.
Il nostro corpo in realtà è il veicolo fondamentale per il nostro andare nel mondo e relazionarci con esso. Il veicolo principale dell’esperienza. Il sé in Gestalt è considerato un processo fluido, non un complesso di caratteristiche stabili come in altri orientamenti, il sé non ha una natura propria se non quando è in relazione, è un vero e proprio integratore dell’esperienza; In parole povere il sé e le funzioni di contatto in Gestalt sono la stessa cosa.
È un processo circolare nel quale attraverso l’eccitazione avvertiamo i nostri bisogni, con l’orientamento ci organizziamo per soddisfarli in relazione all’ambiente, attraverso la manipolazione agiamo al loro servizio. Attraverso l’identificazione e l’alienazione integriamo o rigettiamo nel nostro io ciò che può essere assimilato o meno. Proprio per l’estrema importanza delle funzioni di contatto è importante averle presenti alla consapevolezza, quando vengono a mancare inizia il disagio, psichico e non solo. L’organismo non è più in grado di adattarsi in maniera fluida al mondo.
Il corpo ci aiuta a dare il vero nome ai nostri bisogni, Perls sostiene che se non “ingeriamo” cibo buono ed adatto a noi (e non rigettiamo quello inadatto), la vita risulta “tediosa, confusa e dolorosa”.
Nell’ottica gestaltica Separare la nostra parte corporea da noi significa in qualche modo sabotare la nostra funzione organismica. Come arriviamo ad alienare la nostra esistenza fisica?
Ci può essere una diseducazione al contatto fin da tenera età ad esempio. Un atteggiamento critico e scoraggiante espresso con frequenza e continuità, forgia il sé del bambino, anche i doppi messaggi (double bind, ovvero quando io adulto rimprovero un comportamento nel bambino e poi lo metto in atto) fanno si che si verifichino delle condizioni di pericolo per l’integrità del sé. E’ un po’ come se io pretendessi che una stanza della mia casa non esista, la sigillo ma non me ne posso disfare perchè fa parte della casa. Porto un’istanza del sé nell’inconsapevolezza, la ignoro, quella tuttavia rimane lì. Quell’istanza del sé continuerà ad agire nonostante io l’abbia sigillata (per esempio le emozioni).
Se questa negazione avviene a livello del corpo, io avrò un Io che è lecito fatto di mente e parole, ed un Esso che è il corpo e che è estraneo.
Quasi tutti se non tutti i sentimenti, hanno una base corporea, cambiamento del respiro, sudorazione, e molti altri indici li caratterizzano. Basti pensare allo studio di Darwin sulle display rules, fatto a fine ‘800, le emozioni di base hanno espressioni fisiche transculturali e un africano è perfettamente in grado di riconoscere la rabbia sul volto di un europeo.
Alla base delle emozioni ci sono quindi le sensazioni, che possiamo lasciar fluire o meno, se le lasciamo fluire, attraverso il nostro apparato motorio, ecco che l’emozione si manifesta (e-movere, muovere fuori); ad esempio per la tristezza, se lasciamo il movimento fluire, si attivano la respirazione, le lacrime, ecc. E’ soltanto attraverso il movimento che il sentimento assume pieno significato. Solo muovendoci ci mettiamo in condizione di connettere il bisogno, che il sentimento manifesta, con l’ambiente, che poi è dove i bisogni possono essere soddisfatti. Se un movimento viene ostacolato, etichettato e quindi represso, sono delle funzioni di contatto che diventano difficilmente accessibili.
Il dolore è funzionale a farci conoscere i nostri limiti fisici, può anche essere qualcosa che ci danneggia molto e viene usato da altri proprio con questo fine. Genitori violenti, abusi, bullismo, etc, sono tutti esempi dove il dolore non gioca un ruolo costruttivo. Quello che accade nella realtà di una ferita, fisica o emotiva, reiterata nel tempo, è l’allontanarsi il più possibile dalla fonte, quindi anche dalla sensazione stessa. Ad esempio rinnegando la sede stessa del dolore pur di non sentirlo. Possiamo rinnegare un braccio ma quello continua ad esserci…
A volte può succedere che la negazione del corpo ci distacchi anche dai nostri bisogni e quindi dall’espressione di essi.
Molto del distacco dal corpo e del considerarlo qualcosa di lontano da noi lo dobbiamo alla negazione della nostra sessualità, il rapporto genitore-bambino ne è l’esempio. Tra genitori e figli c’è affetto e c’è sessualità, la nostra cultura ci “impone” di negare la seconda, per cui si crea una negazione importante che può avere esiti nel figlio/a che si distacca dalla propria dimensione corporea perchè l’idea dell’incesto è intollerabile. Cosa succederebbe se i genitori si autorizzassero l’idea della sessualità? Credo che sia fondamentale autorizzarsi l’idea, naturalmente non di agirla, per avere una scelta. Quello che dico può sembrare tremendo, ma sono convinto che solo non negando le parti di noi abbiamo un reale potere di scelta su quello che vogliamo essere.
La negazione corporea ha diverse sfumature, da lieve a psicotica, quando cioè si ha una distorsione grave della propria immagine corporea. A metà strada tra la posizione normale e quella nevrotica c’è quella modale, ossia il più comune grado di identificazione corporea. In un qualche modo siamo tutti nevrotici in modo “normale”, quello che sperimentiamo è il miglior adattamento creativo possibile in una determinata circostanza.
A un estremo del continuum, c’è anche il “materialismo corporeo”, per il quale l’unica realtà che abbia senso è, appunto, quella corporea. Il sé è un sé solo corpo che non include altri aspetti, per cui la consapevolezza non abbraccia nessun altro aspetto. Un po’ come se l’equilibrio tra sé e aspetti rinnegati del se fosse rappresentato dalla quantità di acque e terra emersa, per queste persone, la quantità di acqua è talmente grande e spaventosa che non gli resta che voltarsi verso l’interno, ignorando di essere un’isola dopo tutto.
Il liberarsi dei blocchi corporei ed emotivi, non è una strada senza rischi o che esenta dal dolore, a tal proposito Perls scrive: “ma crescendo il sé corre dei rischi, corre dei rischi con sofferenza se ha evitato a lungo tali rischi e deve dunque distruggere molti pregiudizi, introietti, attaccamenti al passato fissato, sicurezza progetti ed ambizioni; corre i suoi rischi con eccitazione se è in grado di accettare di vivere nel presente”.

Nel nostro sé albergano istanze che ci possono risultare più o meno gradevoli, la persona sana si consente tutte la consapevolezza di tutte le polarità, cosa che dà forza.
Il fatto di rinnegare delle parti di sé implica che la persona si neghi tutta una gamma di esperienze e possibilità, le energie vengono grandemente investite nella repressione. Le polarità (aspetti) che esprimiamo, sono quelle che possiamo definire come “immagine di sè”, mentre quelle che neghiamo, costituiscono il sé rinnegato, quello che Jung ha chiamato “l’ombra”.
Ogni polarità del sé ha le proprie radici nelle nostre sensazioni corporee e nel comportamento così come nel nostro linguaggio figurato e nella simbolizzazione verbale, per esempio basta pensare a qualcuno che si relaziona in modo “duro” o “tenero”. Tutto il corpo risponde all’intenzione che abbiamo.
Integrare corpo e sé vuol dire essere in grado di essere “plastici” nell’uno e nell’altro, mutuamente, come posso accettare di essere tenero se non sono in grado di ammorbidire i miei muscoli?

La persona è e continua a rimanere una totalità, si scinde per allontanarsi da esperienze dolorose. L’io solitamente viene identificato con il funzionamento mentale, con la produzione di parole, pensieri, immagini, mentre gli aspetti della propria esperienza corporea che sono risultati problematici, vengono considerati come “altro da sè”.

La maggior parte degli approcci terapeutici divide mente e corpo, che lavora col verbale o solo col corpo. I terapeuti sono sfidati a comprendere cosa significa accostarsi alla persona come unità, a determinare cosa è necessario recuperare di quello che è stato frammentato e rinnegato, ed a sostenere l’integrazione delle parti in una persona che possa funzionare come una totalità.
Nella scienza del 19simo secolo e negli approcci da essa scaturiti, la totalità è uguale alla somma delle sue parti, se una persona è considerata come un insieme di parti, allora ogni sua parte può essere separata dal resto e trattata singolarmente. In pratica i fenomeni psicosomatici sono visti come una funzione di una relazione causale tra mente e corpo, due settori distinti e separati.
Con i vari approcci terapeutici si presentano vari problemi, ad esempio con quello unidirezionale, che cioè va ad agire su una parte, si favorisce la scissione tra mente e corpo, incentivando l’attenzione verso un solo aspetto della persona. Il problema è che la persona vive come se un conflitto mentale causa un sintomo fisico, piuttosto che di avere un problema unitario che ha varie manifestazioni.
Gli approcci che partono dal fisico, invece, prevede una interdipendenza tra postura e atteggiamento mentale, detto in parole poverissime, se cambio la postura di una persona depressa, sarà meno depressa. Il punto è che se non c’è un’integrazione delle parti del sé, la persona depressa non sarà in grado di mantenere la postura “non-depressa”.

Tra i molti approcci c’è anche quello stratificato, che lavora separatamente e contemporaneamente sul livello psicologico e fisico, il problema sorge nel fatto che le due esperienze non sono la stessa esperienza, cioè ci può essere una pur sottile discrepanza tra il sé corporeo ed il sé razionale del cliente che non favorisce l’integrazione. Il punto è che nessuno degli approcci finora descritti si pone il problema della reificazione del corpo, ovvero del considerare il corpo come altro da sé, di conseguenza è facile immaginare come non abbiano alcun modo di colmare il divario che si crea in questo modo.
Un approccio integrato miera a mettere insieme tutti gli aspetti della persona così che questa possa fare esperienza di sé come un organismo unitario, invece di un miscuglio di parti.
I processi psicologici (per esempio i conflitti o le convinzioni) nel venire verbalizzati sono collegati alle loro espressioni corporee, i processi fisici sono visti come espressioni significative della persona, la tecnica terapeutica si sforza di ristabilire il senso del sé come globalità e di riaffermare la mutua identità delle parti.
Il problema portato dal paziente, in una terapia integrata, include sia le tensioni fisiche che il conflitto mentale. Collegare le due parti non vuol dire comprendere intellettualmente che sono collegate, ma vivere nel momento presente quell’esperienza integrata.
Il punto è che la totalità non può essere insegnata né spiegata come concetto, la terapia ha il compito di creare le condizioni necessarie per muovere il paziente verso l’esperienza di unitarietà. Solo attraverso di essa potrà sentirne il sapore e ricercarlo, il lavoro integrato in quest’ottica diventa un punto di partenza e non d’arrivo.
Il lavoro integrato prevede una certo numero di condizioni perchè possa risultare possibile e pertinente:
un sufficiente grado di consapevolezza del corpo (sufficiente vuol dire che il paziente stesso si osserva ed è in grado di notare cosa sta succedendo a livello corporeo)
un sufficiente grado di consapevolezza della relazione fra se stessi e le questioni e i problemi della vita corrente (se non riconosco che partecipo attivamente a quello che mi accade e che, quindi, non mi accade per caso, è abbastanza inutile qualunque terapia)
una fiducia di base tra problemi psicologici e processo corporeo (darla per scontata sarebbe un errore, la si costruisce, insieme al paziente, attraverso delle piccole esperienze)

Enunciati questi principi di base, questo non toglie che possiamo e dobbiamo lavorare con l’obiettivo dell’integrazione senza mai perdere di vista chi abbiamo davanti e quindi apprezzare l’adattamento creativo di ciascuno per quello che è (inclusi meccanismi di difesa e sintomi portati). Il nostro compito non è quello di convincere i pazienti del nostro sistema di convinzioni, che, appunto, è nostro, ma di sostenere lo sviluppo in loro della capacità di fare esperienza dei sintomi come parte del proprio se (e non altro-da-sè).
Anche nella terapia corporea, così come nella Gestalt in generale, vale l’assunto di base, anziché parlare di un dolore, parla come se il dolore fossi tu, quindi non più “la mia schiena è sotto pressione”, ma “IO sono sotto pressione”, questo è l’inizio di un lavoro di integrazione. Naturalmente dura tutto il tempo necessario, non è una cosa immediata, è un inizio.
In realtà, a ben vedere, ciascuna delle modalità terapeutiche ha i suoi pregi, ed allo stesso tempo fa parte di un processo che ci porta alla visione integrata. Il lavoro unidirezionale (scissione mente/corpo), sviluppa la consapevolezza di quelle parti che sono rimaste fuori da essa e che sono quindi inaccessibili alla funzione integrativa della persona, il lavoro alternato (ora mente, ora corpo) sviluppa il senso di complementarità tra processi fisici e mentali, e li porta verso uno stesso confine. Il lavoro stratificato permette il collegamento delle parti del se che prima non lo erano, ed è la prima approssimazione del lavoro integrato. L’ultimo step è appunto il lavoro integrato, che usa come base il collegamento tra le parti per colmare i “buchi” di consapevolezza e per accompagnare la persona ad apprezzare la totalità formata da ciò che precedentemente era sperimentato poco o nulla.
L’ottica gestaltica non è mai incentrata sulla casualità, in questo senso nemmeno la struttura corporea accade o capita. E’ un insieme dei suoi adattamenti organismici alla vita e diventa significativa se vista in questo contesto. Quand’è che una postura, un modo di stare nel mondo si cristallizza? Quando una certa reazione, fisiologica in un momento, diventa una struttura, ad esempio quando sto incurvato e con le spalle alte che incassano la testa come se fossi in attesa di un colpo; se questo modo di difendermi diventa da processo (momentaneo) struttura, allora ecco che una postura diventa dolorosa e cristallizzata.
Le caratteristiche principali della struttura cristallizzata sono la poca flessibilità e l’inconsapevolezza; la poca flessibilità si esprime per esempio quando, una volta cessato il pericolo, reale o immaginato che sia, rimane la postura, che poi si cristallizza. Immaginiamo come possa essere faticoso vivere come se ci fosse una minaccia costante…
Le strutture corporee di adattamento sono come delle abitudini, per quanto questa parola non renda adeguatamente l’idea. Ma come possono questi processi diventare tanto abituali da cristallizzarsi? Le parti del sé rinnegate, come già detto, trovano un loro non-posto nel corpo, ovvero si traducono nell’inibizione di alcuni movimenti, nella desensibilizzazione delle sensazioni corporee. Questo reprimere, non autorizzarsi, porta esattamente alla cristallizzazione, un po’ come imporsi dei limiti, dei confini (che non sono selettivamente permeabili, ma rigidi) senza sapere cosa c’è realmente al di là. La cornice posturale delle persone, quando è inconsapevole, può dare luogo a delle scissioni importanti, pensiamo per esempio al sergente dell’esercito: mascella contratta, npetto in fuori, spalle e collo irrigiditi. Come si percepisce? Riesce a modificarla per dare spazio a tenerezza e dolcezza? Potrebbe percepirsi come un duro, e l’idea di sé e la postura sarebbero congruenti, oppure potrebbe percepirsi come caldo ed amichevole, ed allora sarebbero incongruenti. Potrebbe sentirsi messo a disagio dal fatto che gli altri interagiscano con lui in modo timido, ed allora si ha una disconnessione dal proprio sé, dove la struttura corporea, aliena, non gli permette di contattare gli aspetti aggressivi né quelli dolci.
In quest’ottica, il compito del terapeuta non è tanto di “eliminare” le cristallizzazioni corporee (così come non è quello di eliminare i sintomi, ovvero ciò che il paziente ci porta come disagio) ma di aiutare il paziente a cambiarle in processi organismici attivi e di facilitare l’integrazione della scissione che ne è alla base. Non eliminare le strutture ma trasformarle nei processi che rappresentano e integrare nel sé ciò che è stato rinnegato o rimosso.
Nella Gestalt l’obiettivo è il cambiamento della persona come unità , la domanda non è “il tuo petto è incavato, prova così”, ma “Noto che il tuo petto è incavato, prova a cambiarlo: che cosa cambia nell’esperienza di te stesso se sollevi il torace?”. In questo modo permettiamo al paziente di fare un’esperienza, che poi potrà scegliere di replicare e/o approfondire.
Gran parte delle strutture corporee sono inconsapevoli, il primo passo per una terapia è notare cosa accade, ovvero far prendere consapevolezza al paziente di quello che è. A partire da questa consapevolezza, poi, si può iniziare un processo di riappropriazione, per far sì che il mio corpo sia meno una cosa e più “io”. Comincio ad identificarmi con la struttura corporea. Un altra possibilità che offre la terapia con il corpo è quello di ancorarci un qualcosa che possa risultare evocativo per il paziente, ad esempio un gesto, una sensazione o il cambiamento della stessa nel fare un’esperienza. Questo può aiutare il paziente a “ricordarsi” di un sapore e inseguirlo quando non è in seduta, in maniera tale da sviluppare proprio quella funzione di autoaccompagnamento che credo sia fondamentale in una psicoterapia.
Perché una terapia sia integrata e olistica bisogna sempre tenere presente come un tema è incarnato, ovvero agire sui piani della parola, dell’emozione e dell’azione, il tema di una persona non è legato soltanto alla percezione, ma anche a come lo agisce, quindi al suo corpo. Per esempio con qualcuno che è fortemente legato alla parola, bisogna spostare il focus sul corpo per permettergli di fare un’esperienza che vada al di là dei confini che normalmente rispetta, proprio perché, grazie a questa nuova esperienza, possa aprirsi nuove possibilità. La struttura corporea può essere vista come una conversazione cristallizzata o un dialogo tra parti di sé in conflitto, la conversazione si è bloccata perchè una delle parti in conflitto ha preso il sopravvento, andando a trovare un equilibrio fragile e basato su un rapporto di potere con l’altra (quante volte ci capita nella vita quotidiana in relazione con l’altro questo?).
Il lavoro che segue può ad esempio essere un dialogo tra le parti in conflitto e quindi la chiusura di gestalt rimaste aperte; cosa cambia nel corpo? Che effetto mi fa?
Il punto è che dialettizzare il sintomo, o la postura, non basta di per sé, il paziente ne deve fare esperienza nel contesto protetto della terapia e “pendolare” da una polarità all’altra trovando la sua sfumatura e la flessibilità necessarie a poterle mettere in atto nel mondo. Il fine non è di invalidare il meccanismo di difesa o di liberarsene, ma di renderli funzionali e “attuali” (se sono nati avranno avuto uno scopo in quel momento della nostra vita, oggi, perchè siano efficaci, vanno probabilmente modificati e riadattati). L’importante è trovare la manopola per la modulazione, in modo tale da esporsi in quegli ambienti dove troviamo sostegno, e proteggersi là dove ci sembra che non ci sia.

continua….[:]

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