DEL MIO MEGLIO (quello che posso)

paolo molino psicoterapeuta il meglio di se stessi

DEL MIO MEGLIO (quello che posso)

 

Come sempre devo ringraziare i miei pazienti per gli spunti di riflessione.Questa volta in particolare una , C. , che mi ha dato materiale per un bel po’. Ne scrivo perché credo sia utile a me, a lei, e a chi legge.Una convinzione granitica che ho sviluppato negli anni di lavoro come terapeuta, e come genitore, è che possiamo solo fare del nostro meglio.

Come sempre devo ringraziare i miei pazienti per gli spunti di riflessione.Questa volta in particolare una , C. , che mi ha dato materiale per un bel po’. Ne scrivo perché credo sia utile a me, a lei, e a chi legge.Una convinzione granitica che ho sviluppato negli anni di lavoro come terapeuta, e come genitore, è che possiamo solo fare del nostro meglio.

Sembra un escamotage per fare quello che mi pare in nome del mio meglio, una sorta di lasciapassare.


Non avevo mai pensato che potesse essere letta così ed è tremendamente vero. Il mio percorso per arrivare al “mio meglio” è stato il suicidio narcisistico e l’umiltà. Mi sono iscritto a psicologia a 23 anni pensando di poter salvare il mondo (e me stesso attraverso di esso). La realtà mi ha sbattuto in faccia che non è cosi, ma ci ho messo molto a capirlo. La consapevolezza che l’Altro fa l’Altro è arrivata quando ho iniziato a lavorare come terapeuta. Non do consigli in terapia, ho un opinione, che non è importante perché quello che conta nelle sedute è quello che pensa e sente il paziente, e molto dello sforzo terapeutico va nello spingerlo/a ad imparare ad ascoltarsi ed allenarlo/a a farlo nel miglior modo possibile, per poi lasciargli/le prendere il volo. Per i genitori a mio avviso funziona nello stesso modo. Possiamo solo seminare meglio che possiamo sperando che il risultato sia quello che vogliamo.


Il suicidio narcisistico consiste nel fatto di uscire dalla convinzione di avere la verità in tasca e di sapere che cosa sia bene per il paziente, o per chiunque altro. Non è facile perché siamo sempre molto convinti, spesso in buona fede, di sapere cosa e come va fatto. Uscire da questo atteggiamento significa aprirsi alle possibilità, alle differenze, con autenticità. Lo si può fare solo sospendendo il giudizio, tutt’altro che facile. L’umiltà è necessaria per ottenere quanto sopra, se io non mi metto in una posizione di sguardo, mente, e cuore aperto, non sarà mai possibile sospendere il giudizio con autenticità e quindi accogliere veramente l’Altro.


Ma torniamo a C. , o meglio torniamo a me, e all’insostenibile pesantezza della responsabilità di terapeuta (e di genitore). Quando sono nello studio ho un ruolo che si definisce para-genitoriale, ovvero come se fossi un genitore (oltre ad altre cose) . Questo da un autorevolezza, ovvero un potere, importante. Frasi, sguardi, battute, movimenti, arrivano al paziente in modo molto intenso, il che vuol dire che il terapeuta deve essere molto presente a sé stesso e usare questo potere con grande cautela e consapevolezza. Il rischio di fare danni è molto alto.
Ricordo qui che il processo terapeutico sano vuole che il paziente faccia il proprio processo personale, solo momentaneamente passi attraverso una “dipendenza” dal terapeuta, che deve essere solo una base sicura da cui spiccare il volo.


La conclusione a cui sono arrivato in questi anni di lavoro è che l’unico modo per sopravvivere alle sedute e alle vite che mi attraversano, è fare del mio meglio. Sapere sempre che posso fare solo quello che posso come persona, umana e limitata. Il 50% è mio, il 50%, dell’Altro.
Facendo delle riflessioni con C. sulla genitorialità, mi è venuto del tutto spontaneo rassicurarla dicendole che lei fa del suo meglio, proprio come me, e che quello è il massimo che può fare in un dato momento (qui e ora).
Dopo qualche minuto di riflessione silenziosa, C. mi chiede: ma allora anche mia mamma ha fatto del suo meglio? Si tratta di una mamma abusante e che ha permesso che il marito abusasse della figlia.
La mia risposta è inevitabilmente si, anche se in questa occasione ho molta difficoltà a sostenere la rabbia di C. che giustamente si domanda come sia possibile.
La risposta che mi viene in mente è che associamo il concetto di “mio meglio” con “bene”. Non è così.

Fare del mio meglio non vuol dire che sia bene o abbastanza, sicuramente nel caso di un genitore abusante non è assolutamente abbastanza. Fare del suo meglio vuol dire fare quello che può, per circostanze, cultura, educazione, situazione socio economica, ecc. Fare del proprio meglio vuol dire cercare di dare il massimo, questo per avere una prospettiva su sé stessi compassionevole, perché solo da li può nascere il cambiamento autentico, non dalla rabbia e dal giudizio. Rispetto all’abusante, il pensare che ha comunque fatto del suo meglio, per quanto non abbastanza (anzi), può aiutare me a superare la rabbia che in realtà mi lega precisamente nella dinamica traumatica e mi tiene bloccato/a in trauma time.


Non amo il concetto di perdono, quindi non si pensi che il guardare al mondo con quest’ottica del “meglio”, debba portare al perdono. Dove punta è al lasciar andare per poter emancipare me stesso/a e non bloccarmi nella rabbia. Bert Hellinger dice che “l’odio lega più dell’amore”, ed è vero. Possiamo scegliere se rimanere li, nella rabbia e nell’odio, oppure affrontare, con dolore, paura, e le altre emozioni presenti, quel trauma, per prendere a bordo quella parte di noi che è sopravvissuta.


[edit] Grazie a tutti i commenti mi sono reso conto che “quello che posso” é più adatto de “il mio meglio”. Non posso sostenere la tesi che un abusante faccia del suo meglio. Nel concetto di quello che posso si può davvero includere tutto, anche il male. Scelgo di lasciare larticolo per come è con questo arricchimento grazie alle persone che qui hanno dedicato del tempo e delle energie, grazie di cuore

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