
06 Dic “Il gioco che guarisce” di Violet Oaklander
Si tratta di riassunti di libri legati alla psicologia della Gestalt e a Fritz Perls, li ho redatti pensando a una diffusione di un atteggiamento, un’attitudine diversa che io stesso mi sforzo di applicare nella mia vita, non di rado scivolando…buona strada a tutti coloro che vorranno prendersi due minuti per leggere!
IL GIOCO CHE GUARISCE (Violet Oaklander)
Il libro è affascinante, inizia con una fantasia guidata, una fantasia dedicata ai bambini (e ai bambini negli adulti direi io), seguita da un corredo di “casi clinici”, ovvero esempi pratici di quello che è stata una parte dell’esperienza dell’autrice.
Seguendo gli esempi, con una semplice fantasia guidata e senza approfondimenti che potrebbe risultare dolorosi in un contesto scolastico, l’autrice ci mostra come sia possibile arrivare ad una maggiore consapevolezza a cui segue la possibilità del cambiamento.
Il fatto che spesso i bambini disegno scenari all’opposto del loro stato d’animo ci può aiutare come terapeuti a far emergere, da una porta socchiusa, l’espressione, e quindi la consapevolezza del loro stato d’animo reale. Attraverso la fantasia possiamo penetrare nell’intimo regno del suo essere, possiamo scoprire cosa tiene nascosto.
Questo va di pari passo col mentire, spesso quando mentono i bambini credono a se stessi, si crea un intreccio che permette al bambino di vivere in una realtà tollerabile.
Quando un bambino mente, la bugia va trattata come un sintomo, cosa porta fuori il bambino con quel preciso sintomo? Per questo è sconsigliabile il giudizio o la prescrizione sul comportamento, ma va sentito e capito. Le esperienze che l’autrice riporta in ambito scolastico con tecniche di pittura e manipolazione sono significative, ciascuna di esse rappresenta una sorta di grimaldello soft per entrare nei bambini.
Una tecnica molto efficace consiste nel far disegnare la propria famiglia ai bambini, trasfigurando i membri e dandogli voce. In genere l’autrice lavora facendo una fantasia guidata e poi invitando i bambini a disegnare liberamente ciò che hanno immaginato, dopodiché si lavora sul disegno.
Una tecnica molto usata è quella di Kramer, dello scarabocchio. Prima di tutto si fa usare tutto il corpo al bambino ad occhi chiusi come per fare un disegno enorme nel quale possa utilizzare ogni movimento possibile, poi lo si fa disegnare su un foglio, il primo esercizio ha lo scopo di “sciogliere” il bambino e farlo disegnare in modo meno contratto sul foglio reale.
Seconda tecnica
Altra tecnica, ripresa da Winnicott nel 1994, è quella del segno per cui il terapeuta disegna ad occhi chiusi un segno chiedendo al bambino di tramutarlo in qualcosa, dopodiché continua lui e così via, si verbalizza su ciò che emerge via via.
Questa tecnica si può usare anche in gruppo, per cui il disegno si compone come in un gruppo e ciascuno apporta il suo contributo, si ripete il ciclo finché non si avranno 8 disegni di cui parlare.
Verbalizzando sui disegni e dando loro vita, si può passare attraverso una metafora per poi arrivare a parlare del bambino che sta “lavorando” e del suo sentire rispetto a ciò che accade nel disegno e, successivamente, nella sua vita.
Secondo l’autrice il colore è terapeutico perché col fluire del colore, fluisce anche l’emozione.
Pare che per i bambini sia decisamente più facile rappresentare piuttosto che verbalizzare (ipotizzo io che da un lato fino all’adolescenza ci sia un oggettiva difficoltà nell’esprimere verbalmente, mentre dopo ci potrebbe essere una resistenza a parlare di cose profonde oppure allo stesso starci in contatto ed esserne consapevoli).
L’autrice passa poi da una rassegna dei casi, dalla quale si evince quanto sopra, ad una parte più “teorica” relativamente al lavoro terapeutico basato sul disegno:
1- far condividere al bambino l’esperienza del disegnare
2- far condividere il disegno in sé
3- chiedergli di elaborare parti del disegno
4- chiedergli di dare voce al disegno e di farlo parlare come fosse il bambino in prima persona
5- scegliere una parte specifica del disegno e farla parlare attraverso il bambino
6- porre domande tese a far entrare il bambino sempre più nel disegno (e a portarci con sé)
7- far creare al bambino un dialogo tra due parti del disegno, fargli mettere in scena una possibile interazione
8- usare i colori per esplorare come e quanto il bambino è consapevole di ciò che rappresentano per
lui, aiutarlo a vedere le differenze e come li usa, la pressione, ecc.
9- lavorando sull’identificazione, aiutare il bambino a “riappropriarsi” di quanto è stato detto sul disegno o su parti di esso. “Ti senti mai in questo modo?” e altre su questo tono, mi viene da dire che questo aiuta a chiudere la Gestalt apertasi col disegno, e a portare in figura quegli elementi del disegno (se ci sono) che erano in sfondo e che sono importanti per il bambino.
Secondo l’autrice i bambini bisognosi di aiuto hanno interrotto per un qualche motivo il contatto. Il contatto per un bambino è a livello molto elementare, parlare, toccare, abbracciare, gustare, odorare.
L’interruzione del contatto non è priva di conseguenze, il bambino comunque tende a sopravvivere e a trovare modi per farlo (fantasie, iperattività, intellettualizzazione, compiacenza) che poi evolvono a loro volta in altri comportamenti in età adolescenziale, dietro i tentativi di arrangiarsi (i comportamenti di sopravvivenza) ci sono sempre dei bisogni insoddisfatti che sfociano nella perdita del senso del sé. Il lavoro in terapia è teso a costruire il senso del sé del bambino e rafforzarne le funzioni del contatto. Una delle difficoltà lavorando con i bambini (ma anche con gli adulti credo io) è che il ruolo del terapeuta è quello di rafforzare il sé, facilitarli nel decidere per sé, ma non scegliere per loro. Bisognerebbe essere direttivi senza essere invadenti, dolci e gentili senza essere passivi o non direttivi.
E’ indispensabile e fondamentale partire dal livello dove si trova il bambino, perché evidentemente in quel livello si sente al sicuro. Non si può usare le pinze del
dentista per estirpare un comportamento sconveniente, bensì capire quel che quel determinato comportamento vuol dire, il messaggio che veicola, per poi vedere se insieme, dopo esserci entrati in contatto, si possa evolvere partendo da lì.
In ogni caso le fantasie sono tante quante ne permette l’immaginazione, non c’è una prescrizione, solo magari un modus operandi che segue le possibilità enunciate sopra, poi, come tutto in psicoterapia, sta ad ogni terapeuta trovare il suo proprio modo di entrare in contatto e lavorare col paziente.
Dopo aver parlato del disegno l’autrice si sposta sul fare in terapia. L’argilla è uno dei materiali
preferiti, per le sue caratteristiche di mollezza e malleabilità. L’altra dote principale è la sensualità dell’argilla, chi non è in contatto con le proprie emozioni spesso non è in contatto con i propri sensi, l’argilla aiuta molto nello sbloccare questo processo. L’argilla lascia spazio ai sensi, l’autrice fa lavorare i suoi bambini ad occhi chiusi per sentire (la vista oltretutto porta al giudicare il proprio lavoro ed ad allontanarsi dal contatto a mio avviso). Poi si procede all’elaborazione e verbalizzazione delle sensazioni provate mentre si lavorava l’argilla.
Terza tecnica
Un’altra forma di espressione importante è la Musica. Attraverso il ritmo si possono far costruire ai bambini delle storie insieme. Allo stesso tempo è possibile “mettere in scena” le emozioni attraverso vari strumenti musical anche di fortuna. (es. “suonaci un ritmo e noi dobbiamo capire di che umore sei). Un altro punto positivo del ritmo è la possibilità d lavorare sulla cooperazione e sulle sinergie, facendo capire quanto in realtà sia importante in gruppo. Attraverso i gusti e gli odori possiamo riportare alla memoria emozioni antiche elicitate da questi.
Per aiutare per così dire la consapevolezza corporea, con i bambini si possono fare lavori su dove siano (o meglio, si sentano, le emozioni, perché alla base il bambino essendo poco meta- chiaramente non pensa su se stesso (a seconda dello stadio di sviluppo). Attraverso il corpo e la postura possiamo esasperare quello che è un movimento o un modo di stare, cosa che ci consente d arrivare all’espressione di un sentimento o di un vissuto. Come emerso con Anna Acocella, il movimento è un altro canale preferenziale con i
bambini movimento=vita. Un gioco sicuramente interessante è quello che l’autrice chiama haiku, si descrive una scena composta di azioni e d i bambini devono metterla in atto.
Recitare aiuta i bambini ad accostarsi a se stessi scostandosi da se stessi, può sembrare paradossale ma è così, in effetti, chiamandosi “fuori”, uno può prendere consapevolezza di sé. Il mettere in scena qualcosa ci permette di restare abbastanza distanti dal dolore che una certa emozione o vissuto può suscitare, ed allo stesso tempo ci permette di riviverlo, ben agganciati al presente, ed eventualmente di permetterci di trovare nuove strategie o soluzioni che fino ad allora non riuscivamo nemmeno a vedere. La maschera, come il pupazzo, permette al bambino di dire cose che altrimenti non direbbe.
Quarta tecnica
Un altro lavoro molto interessante che l’autrice fa è quello sui sogni, i sogni sono il messaggio più spontaneo e vero di noi a noi stessi dice Perls. Violetta usa i sogni sia in terapia individuale che in giochi di gruppo, facendo impersonare ai bambini tutte le persone o cose del sogno, sempre giocando i bambini arrivano spesso a capire sentendo cosa sta cercando di dire loro il sogno. In ogni caso i sogni assolvono a diverse funzioni, possono servire a esprimere ansia, paura, preoccupazioni.
Come indicazioni didattiche la Violetta ci passa il suo metodo, che è quello di cercare le polarità nel sogno, le dicotomie, i punti di contatto, oppure gli elementi che questo contatto lo impediscono.
La tecnica della sedia vuota, è stata elaborata da Perls come mezzo per sviluppare una maggiore consapevolezza e chiarezza nel lavoro terapeutico. Questa tecnica aiuta a chiarire le proprie polarità e divisioni, chiarificazione essenziale per il processo terapeutico.
Perls parlava di underdog e topdog, il topdog è quello dei “doverismi” per dirla con parole di
Naranjo, e sa SEMPRE cosa deve/dovrebbe fare l’underdog. Il conflitto tra queste due parti logora, in un circolo vizioso di redarguimento per ciò che il topdog pensa che si dovrebbe aver fatto, ed un underdog che regolarmente non lo fa ma neanche si gode le cose perché ha un orecchio sempre porto al topdog.
Una cosa che torna dalla psicoanalisi con prepotenza nelle nostre vite è che il bambino, così come il bambino che è in noi, è spaventato dalle contraddizioni che ci sono dentro di lui e negli adulti che circondano le nostre vite. Questo è dovuto alle polarità, che coesistono o in tutti noi. Un lavoro finalizzato all’accettazione delle proprie polarità è buono con i bambini che altrimenti vivono male questo contrasto.
Il gioco è una forma di auto-terapia, con cui spesso i bambini elaborano la confusione, le ansie ed i conflitti. Funge anche da linguaggio, un simbolismo che sostituisce le parole,. Le esperienze che il bambino non sa ancora esprimere con le parole, vengono formulate ed espresse attraverso il gioco.
Esperimenti
Lowenfeld (1975) inizia a fare interessanti lavori con la vasca di sabbia, una struttura di legno di 46 x 68 cm, con un bordo di 2 cm. La sabbia condivide alcune proprietà con l’argilla: plasmabilità, piacevolezza al tatto, fantasiosità e possibilità di utilizzo. I terapeuti che più usano la vaschetta con la sabbia sono gli junghiani, che usano fotografare anche i “lavori in corso” per vedere le evoluzioni del paziente. Con personaggi ed utensili di tutti i giorni si può lavorare con la sabbia, facilitando ancora più che col disegno il bambino che non deve nemmeno inventare i personaggi perché sono
lì, a portata di mano.
Grande considerazione viene data dall’autrice alle resistenze in terapia, il bambino non è li per
assecondarci, come nemmeno l’adulto, e vanno rispettati i suoi tempi e i suoi no. In genere la terapia dura dai tre ai sei mesi, quindi terapie molto brevi rispetto all’adulto che ha repertori ossidati e strati da togliere.
Quanto alla rabbia, l’autrice suggerisce di farla esprimere ai bambini in seduta ed escogitare modi per agirla insieme a loro, una volta presoci contatto, cercare di canalizzarla al meglio per riuscire ad esprimerla correttamente. L’energia spesa per trattenere la rabbia porta a comportamenti
inappropriati. Spesso i bambini proteggono i propri adulti dai loro veri sentimenti.
[:en]Si tratta di riassunti di libri legati in qualche modo alla psicologia della Gestalt e a Fritz Perls, li ho redatti pensando a una diffusione di un atteggiamento, un’attitudine diversa che io stesso mi sforzo di applicare nella mia vita (non di rado scivolando)…buona strada a tutti coloro che vorranno prendersi due minuti per leggere
IL GIOCO CHE GUARISCE
di Violet Oaklander
Il libro è affascinante, inizia con una fantasia guidata, una fantasia dedicata ai bambini (e ai bambini
negli adulti direi io), seguita da un corredo di “casi clinici”, ovvero esempi pratici di quello che è
stata una parte dell’esperienza dell’autrice.
Seguendo gli esempi, con una semplice fantasia guidata e
senza approfondimenti che potrebbe risultare dolorosi in un contesto scolastico, l’autrice ci mostra
come sia possibile arrivare ad una maggiore consapevolezza a cui segue la possibilità del
cambiamento.
Il fatto che spesso i bambini disegno scenari all’opposto del loro stato d’animo ci può aiutare come
terapeuti a far emergere, da una porta socchiusa, l’espressione, e quindi la consapevolezza del loro
stato d’animo reale. Attraverso la fantasia possiamo penetrare nell’intimo regno del suo essere,
possiamo scoprire cosa tiene nascosto.
Questo va di pari passo col mentire, spesso quando mentono i bambini credono a se stessi, si crea
un intreccio che permette al bambino di vivere in una realtà tollerabile.
Quando un bambino mente, la bugia va trattata come un sintomo, cosa porta fuori il bambino con
quel preciso sintomo? Per questo è sconsigliabile il giudizio o la prescrizione sul comportamento,
ma va sentito e capito. Le esperienze che l’autrice riporta in ambito scolastico con tecniche di pittura
e manipolazione sono significative, ciascuna di esse rappresenta una sorta di grimaldello soft per
entrare nei bambini
una tecnica molto efficace consiste nel far disegnare la propria famiglia ai bambini, trasfigurando i
membri e dandogli voce. In genere l’autrice lavora facendo una fantasia guidata e poi invitando i
bambini a disegnare liberamente ciò che hanno immaginato, dopodiché si lavora sul disegno.
Una tecnica molto usata è quella di Kramer, dello scarabocchio. Prima di tutto si fa usare tutto il
corpo al bambino ad occhi chiusi come per fare un disegno enorme nel quale possa utilizzare ogni
movimento possibile, poi lo si fa disegnare su un foglio, il primo esercizio ha lo scopo di
“sciogliere” il bambino e farlo disegnare in modo meno contratto sul foglio reale.
Altra tecnica, ripresa da Winnicott nel 1994, è quella del segno per cui il terapeuta disegna ad occhi
chiusi un segno chiedendo al bambino di tramutarlo in qualcosa, dopodiché continua lui e così via, si
verbalizza su ciò che emerge via via.
Questa tecnica si può usare anche in gruppo, per cui il disegno si compone come in un gruppo e
ciascuno apporta il suo contributo, si ripete il ciclo finché non si avranno 8 disegni di cui parlare.
Verbalizzando sui disegni e dando loro vita, si può passare attraverso una metafora per poi arrivare
a parlare del bambino che sta “lavorando” e del suo sentire rispetto a ciò che accade nel disegno e,
successivamente, nella sua vita.
Secondo l’autrice il colore è terapeutico perché col fluire del colore, fluisce anche l’emozione.
Pare che per i bambini sia decisamente più facile rappresentare piuttosto che verbalizzare (ipotizzo
io che da un lato fino all’adolescenza ci sia un oggettiva difficoltà nell’esprimere verbalmente,
mentre dopo ci potrebbe essere una resistenza a parlare di cose profonde oppure allo stesso starci in
contatto ed esserne consapevoli).
L’autrice passa poi da una rassegna dei casi, dalla quale si evince quanto sopra, ad una parte più
“teorica” relativamente al lavoro terapeutico basato sul disegno:
1- far condividere al bambino l’esperienza del disegnare
2- far condividere il disegno in sé
3- chiedergli di elaborare parti del disegno
4- chiedergli di dare voce al disegno e di farlo parlare come fosse il bambino in prima persona
5- scegliere una parte specifica del disegno e farla parlare attraverso il bambino
6- porre domande tese a far entrare il bambino sempre più nel disegno (e a portarci con sé)
7- far creare al bambino un dialogo tra due parti del disegno, fargli mettere in scena una possibile
interazione
8- usare i colori per esplorare come e quanto il bambino è consapevole di ciò che rappresentano per
lui, aiutarlo a vedere le differenze e come li usa, la pressione, ecc.
9- lavorando sull’identificazione, aiutare il bambino a “riappropriarsi” di quanto è stato detto sul
disegno o su parti di esso. “Ti senti mai in questo modo?” e altre su questo tono, mi viene da dire
che questo aiuta a chiudere la Gestalt apertasi col disegno, e a portare in figura quegli elementi del
disegno (se ci sono) che erano in sfondo e che sono importanti per il bambino.
Secondo l’autrice i bambini bisognosi di aiuto hanno interrotto per un qualche motivo il contatto. Il
contatto per un bambino è a livello molto elementare, parlare, toccare, abbracciare, gustare, odorare.
L’interruzione del contatto non è priva di conseguenze, il bambino comunque tende a sopravvivere e
a trovare modi per farlo (fantasie, iperattività, intellettualizzazione, compiacenza) che poi evolvono
a loro volta in altri comportamenti in età adolescenziale, dietro i tentativi di arrangiarsi (i
comportamenti di sopravvivenza) ci sono sempre dei bisogni insoddisfatti che sfociano nella perdita
del senso del sé. Il lavoro in terapia è teso a costruire il senso del sé del bambino e rafforzarne le
funzioni del contatto. Una delle difficoltà lavorando con i bambini (ma anche con gli adulti credo
io) è che il ruolo del terapeuta è quello di rafforzare il sé, facilitarli nel decidere per sé, ma non
scegliere per loro. Bisognerebbe essere direttivi senza essere invadenti, dolci e gentili senza
essere passivi o non direttivi. E’ indispensabile e fondamentale partire dal livello dove si trova il
bambino, perché evidentemente in quel livello si sente al sicuro. Non si può usare le pinze del
dentista per estirpare un comportamento sconveniente, bensì capire quel che quel determinato
comportamento vuol dire, il messaggio che veicola, per poi vedere se insieme, dopo esserci entrati
in contatto, si possa evolvere partendo da lì.
In ogni caso le fantasie sono tante quante ne permette l’immaginazione, non c’è una prescrizione,
solo magari un modus operandi che segue le possibilità enunciate sopra, poi, come tutto in
psicoterapia, sta ad ogni terapeuta trovare il suo proprio modo di entrare in contatto e lavorare col
paziente.
Dopo aver parlato del disegno l’autrice si sposta sul fare in terapia. L’argilla è uno dei materiali
preferiti, per le sue caratteristiche di mollezza e malleabilità. L’altra dote principale è la sensualità
dell’argilla, chi non è in contatto con le proprie emozioni spesso non è in contatto con i propri sensi,
l’argilla aiuta molto nello sbloccare questo processo. L’argilla lascia spazio ai sensi, l’autrice fa
lavorare i suoi bambini ad occhi chiusi per sentire (la vista oltretutto porta al giudicare il proprio
lavoro ed ad allontanarsi dal contatto a mio avviso). Poi si procede all’elaborazione e
verbalizzazione delle sensazioni provate mentre si lavorava l’argilla.
Un’altra forma di espressione importante è la Musica. Attraverso il ritmo si possono far costruire ai
bambini delle storie insieme. Allo stesso tempo è possibile “mettere in scena” le emozioni
attraverso vari strumenti musical anche di fortuna. (es. “suonaci un ritmo e noi dobbiamo capire di
che umore sei). Un altro punto positivo del ritmo è la possibilità d lavorare sulla cooperazione e
sulle sinergie, facendo capire quanto in realtà sia importante in gruppo. Attraverso i gusti e gli odor
possiamo riportare alla memoria emozioni antiche elicitate da questi. Per aiutare per così dire la
consapevolezza corporea, con i bambini si possono fare lavori su dove siano (o meglio, s sentano, le
emozioni, perché alla base il bambino essendo poco meta- chiaramente non pensa su se stesso (a
seconda dello stadio di sviluppo). Attraverso il corpo e la postura possiamo esasperare quello che è
un movimento o un modo di stare, cosa che ci consente d arrivare all’espressione di un sentimento o
di un vissuto. Come emerso con Anna Acocella, il movimento è un altro canale preferenziale con i
bambini movimento=vita. Un gioco sicuramente interessante è quello che l’autrice chiama haiku, si
descrive una scena composta di azioni e d i bambini devono metterla in atto.
Recitare aiuta i bambini ad accostarsi a se stessi scostandosi da se stessi, può sembrare paradossale
ma è così, in effetti, chiamandosi “fuori”, uno può prendere consapevolezza di sé. Il mettere in
scena qualcosa ci permette di restare abbastanza distanti dal dolore che una certa emozione o
vissuto può suscitare, ed allo stesso tempo ci permette di riviverlo, ben agganciati al presente, ed
eventualmente di permetterci di trovare nuove strategie o soluzioni che fino ad allora non
riuscivamo nemmeno a vedere. La maschera, come il pupazzo, permette al bambino di dire cose che
altrimenti non direbbe.
Un altro lavoro molto interessante che l’autrice fa è quello sui sogni, i sogni sono il messaggio più
spontaneo e vero di noi a noi stessi dice Perls. Violetta usa i sogni sia in terapia individuale che in
giochi di gruppo, facendo impersonare ai bambini tutte le persone o cose del sogno, sempre
giocando i bambini arrivano spesso a capire sentendo cosa sta cercando di dire loro il sogno. In ogni
caso i sogni assolvono a diverse funzioni, possono servire a esprimere ansia, paura, preoccupazioni.
Come indicazioni didattiche la Violetta ci passa il suo metodo, che è quello di cercare le polarità nel
sogno, le dicotomie, i punti di contatto, oppure gli elementi che questo contatto lo impediscono.
La tecnica della sedia vuota, è stata elaborata da Perls come mezzo per sviluppare una maggiore
consapevolezza e chiarezza nel lavoro terapeutico. Questa tecnica aiuta a chiarire le proprie polarità
e divisioni, chiarificazione essenziale per il processo terapeutico.
Perls parlava di underdog e topdog, il topdog è quello dei “doverismi” per dirla con parole di
Naranjo, e sa SEMPRE cosa deve/dovrebbe fare l’underdog. Il conflitto tra queste due parti logora,
in un circolo vizioso di redarguimento per ciò che il topdog pensa che si dovrebbe aver fatto, ed un
underdog che regolarmente non lo fa ma neanche si gode le cose perché ha un orecchio sempre
porto al topdog.
Una cosa che torna dalla psicoanalisi con prepotenza nelle nostre vite è che il bambino, così come il
bambino che è in noi, è spaventato dalle contraddizioni che ci sono dentro di lui e negli adulti che
circondano le nostre vite. Questo è dovuto alle polarità, che coesistono o in tutti noi. Un lavoro
finalizzato all’accettazione delle proprie polarità è buono con i bambini che altrimenti vivono male
questo contrasto.
Il gioco è una forma di auto-terapia, con cui spesso i bambini elaborano la confusione, le ansie ed i
conflitti. Funge anche da linguaggio, un simbolismo che sostituisce le parole,. Le esperienze che il
bambino non sa ancora esprimere con le parole, vengono formulate ed espresse attraverso il gioco.
Lowenfeld (1975) inizia a fare interessanti lavori con la vasca di sabbia, una struttura di legno di 46
x 68 cm, con un bordo di 2 cm. La sabbia condivide alcune proprietà con l’argilla: plasmabilità,
piacevolezza al tatto, fantasiosità e possibilità di utilizzo. I terapeuti che più usano la vaschetta con
la sabbia sono gli junghiani, che usano fotografare anche i “lavori in corso” per vedere le evoluzioni
del paziente. Con personaggi ed utensili di tutti i giorni si può lavorare con la sabbia, facilitando
ancora più che col disegno il bambino che non deve nemmeno inventare i personaggi perché sono
lì, a portata di mano.
Grande considerazione viene data dall’autrice alle resistenze in terapia, il bambino non è li per
assecondarci, come nemmeno l’adulto, e vanno rispettati i suoi tempi e i suoi no. In genere la terapia
dura dai tre ai sei mesi, quindi terapie molto brevi rispetto all’adulto che ha repertori ossidati e strati
da togliere.
Quanto alla rabbia, l’autrice suggerisce di farla esprimere ai bambini in seduta ed escogitare modi
per agirla insieme a loro, una volta presoci contatto, cercare di canalizzarla al meglio per riuscire ad
esprimerla correttamente. L’energia spesa per trattenere la rabbia porta a comportamenti
inappropriati. Spesso i bambini proteggono i propri adulti dai loro veri sentimenti.
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