L’INVIDIA

Sedia e tavolo fuori da una casa. Nell'invidia nessuno vince.

L’INVIDIA

In questi giorni si parla molto di invidia. Motore è stata la parola inventata da un bimbo (petaloso) e che ha suscitato varie e colorite reazioni. Non ho intenzione di focalizzarmi sulla vicenda della parola, quanto sul motore delle varie reazioni avverse, l’invidia.

L’invidia è una parola che viene dal latino in-vido, guardare male, la definizione come segue “Sentimento di astio verso i beni, i pregi e le fortune altrui”. Invidiare è un qualcosa che lascia la pece sul cuore di chi la prova, ed anche su quello di chi la subisce. Nel cuore di chi la prova riempie il buco della mancanza con una sostanza forse più tossica, la rabbia per il bene che l’altro ha ed io no. In quello di chi la riceve, non consente (non sempre) di gioire a pieno delle proprie conquiste.
In inglese si direbbe che è un lose-lose, ovvero perdono tutti.

Mi voglio soffermare sul fatto che l’invidia è un sentimento che si prova, per così dire, dal basso. Dal basso di un bambino che non ha avuto, o sente di non aver avuto quello che gli spettava. Basso in questo caso non è inteso in senso diminutivo o dispregiativo, è un discorso strettamente di disposizione nello spazio. Provate a mettervi in basso e dover alzare lo sguardo, sentite il male al collo? Ecco, quella è la posizione di chi invidia.

L’invidia ha a che vedere con la rabbia ed il risentimento per quello che, come dicevo sopra, non si è ricevuto, un pò come se il mondo mi dovesse un risarcimento. E qui introduco un altro concetto fondamentale a mio parere, la pretesa. In genere chi invidia pretende che gli venga dato o restituito qualcosa, e quindi assume che chi ce l’ha lo stia togliendo a lui, non meritando di conseguenza di averlo. A livello di logica diciamo che non fa una grinza, io non ce l’ho, tu sì, quindi l’hai preso a me, quindi ti malevoglio e ti guardo male (invidio).

Il problema nasce dal fatto che se io ho un qualcosa (che non è necessariamente un oggetto) di cui tu senti la mancanza, non è necessariamente che l’ho rubato a te, quindi il percorso emotivo e cognitivo dell’invidioso ha una falla epistemologica, cioè alle fondamenta. In sintesi manca quella che è la visione d’insieme, la bigger picture. Che mi aiuta a mettere le cose in prospettiva e a sviluppare quello che è l’antidoto di questa pece sul cuore, l’equanimità. 

L’equanimità è difficile da spiegare, ha a che vedere con il rendersi contenti (molto diverso dall’accontentarsi), di quello che si ha. E’ un sentimento dei più alti (come gratitudine e compassione per esempio), che è rivolto verso l’interno di sé stessi. Se io guardo quello che ho e lo apprezzo autenticamente, quello che l’altro ha, sarà solo una differenza, non un pretesto per odiare. E’ molto interessante l’ennegramma sotto questo punto di vista.

Quando si parla di invidia si parla di enneatipo 4, la cui passione è l’invidia e la cui virtù è, appunto, l’equanimità.  Il 4, carattere di sentimento, è il carattere mancante per eccellenza, non stupisce che invidi e che la tendenza esistenziale sia quella di sviluppare uno sguardo rivolto verso l’interno che poi è l’equanimità.

Non solo. Voglio aggiungere a questa mia analisi la mia spiegazione sul  come mai l’invidia sia tanto diffusa, al punto da essere sport nazionale. E’ diffusa perché la rabbia e l’odio (che vanno a braccetto con l’invidia) costituiscono un’ottima benzina per andare a giro nel mondo (un po’ scomoda secondo me, ma a ciascuno di scegliere); è diffusa perché è molto più semplice stare sporto alla finestra a guardare cosa fa quel poco di buono del vicino, anziché guardare in casa mia cosa succede e cercare di farci qualcosa; è diffusa perché permette a chi la prova di non muoversi e prendersi la responsabilità piena della propria vita, delle proprie scelte e quindi della propria felicità/infelicità.

Insomma non essere invidiosi ha un bel prezzo in termini di energia e di costi. In una psicoterapia ci si allena anche all’equanimità, perché lo sguardo è sempre rivolto a me, a come MI apparecchio una certa situazione, a cosa IO faccio di quello che fanno gli altri. Ho una paziente che, essendo cresciuta in un ambiente frigorifero, dove come bambina non riusciva a capire come avere l’amore dei genitori, è in perenne competizione e con lo sguardo rivolto sempre verso l’esterno. In un paragone continuo. Che fatica!

Quello che ha difficoltà a vedere è che non è colpa sua se i genitori non le davano segnali di approvazione, amore incondizionato e supporto, è un problema loro. Qui il lavoro è lungo e doloroso, si tratta di cambiare piano piano una convinzione negativa su di sè e rinunciare al delirio di onnipotenza dove io posso controllare tutto. Permettere all’altro di essere limitato e stare con la sofferenza che questo mi crea (ancora una volta stare nella rabbia è più comodo apparentemente).

L’equanimità apre anche un’altra porta fantastica, molto predicata nella nostra società pseudo cristiana: la sospensione del giudizio. Se io mi prendo la responsabilità e l’onore di fare della mia vita quello che veramente voglio (già essere in contatto con questo non è per niente facile), non mi interesserà entrare nel merito di quello che fa l’altro, sarà solo un modo diverso, e quindi il giudizio non esisterà nemmeno. Si tratta di un circolo virtuoso a cui tendere, ma secondo me per fare un bel viaggio è importante potersi raffigurare anche la destinazione.

Piccola aggiunta: malevolenza e maldicenza, partono da qui.

No Comments

Sorry, the comment form is closed at this time.